UNA PAGINA DI STORIA BRISIGHELLESE RACCONTATA DA GIORGIO MELANDRI NEL RICORDO DI NERIO RACCAGNI.




 Nel 1956 Luigi Raccagni, proprietario a Brisighella di una osteria in via Fossa rilevata dallo zio Giuseppe, realizzò il sogno di aprire un albergo, con ristorante al piano terra ovviamente, lo chiamò Gigiolè, esattamente come il paese chiamava lui affettuosamente. I figli adolescenti crebbero in quel “centro del mondo”, tra pentole e camere, in uno dei borghi più belli d’Italia, in mezzo ad una valle, quella del Lamone, che da sempre nascondeva tesori, su tutti un olio d’oliva straordinario, e viaggiava verso la Toscana grazie ad una ferrovia ottocentesca che suggellava e alimentava lo speciale rapporto di Faenza, a qualche chilometro, con Firenze. Un piccolo paese, due fratelli, un albergo, una famiglia di ristoratori.

Ce ne saranno stati a migliaia in giro per l’Italia e invece quella storia divenne importante come poche altre e ad un certo punto tra gli anni ’70 e gli ’80 qualsiasi appassionato di cucina sarebbe arrivato in questo angolo di paradiso. Le storie, come abbiamo detto, sono due, diverse come erano diversi i due fratelli.

Nerio aveva lasciato il ristorante di famiglia nel 1976 e con lui la cucina della madre, la maestra Maddalena Guerrieri, fedele custode della tradizione di famiglia e il fratello Tarcisio. Aprì la Grotta a Brisighella che fu un locale completamente diverso, un locale che ha rinnovato il linguaggio del ristorante con una forza straordinaria, un posto talmente innovativo che in tanti provarono ad imitare, ovviamente senza successo alcuno. L’idea di Nerio era una sintesi geniale di ospitalità, contemporaneità, imprenditorialità. L’idea era semplice, rinunciare alla pesantezza del ristorante senza rinunciare alla sua qualità. Ci si poteva sedere ai tavoli e mangiare un grande salame, ma anche due fette di arrosto, alle cinque del pomeriggio.

Le tovaglie erano a quadretti rossi e tutto il linguaggio parlava di qualità viaggiando lontano dal peggior repertorio della formalità. Grandi vini, cose belle, un istinto infallibile del patron, prezzi abbordabili. Si mangiava in una sala bellissima scavata nel gesso, con i sottopiatti in maiolica, con le brocche della bottega Gatti, con un' enorme quadro di Mattia Moreni illuminato a regola d’arte nell’angolo più buio della “grotta ”. Un racconto tutto linguaggio e ritmo, una sala sempre piena e una cucina sempre affidabile. Il locale aprì con un giovanissimo Antonio Casadio in cucina (oggi a La Baita a Faenza) e nel tempo vide avvicendarsi nomi importanti come Bruno Barbieri e Vincenzo Cammerucci.

La gente non poteva scegliere (c’era un solo menù che cambiava settimanalmente) e in tavola arrivavano grandi vini comprati a prezzi eccezionali da Nerio che garantiva alle aziende una straordinaria vetrina. Anche le grandi firme del vino italiano facevano a gara a rifornire la Grotta e non era difficile bere Sassicaia, Tignanello, Solaia e i brunello di Soldera.

In sala, dal ’90 al ’96, Daniela Pompili, figura mitica del locale, citata più volte nelle schede della guida dell’Espresso firmate da Paolo Scotto e una volta addirittura paragonata ad una pantera nera per l’eleganza e la bellezza. Aneddoti a parte, Daniela, che aveva l’ordine tassativo di non parlare, è stata una figura importante della Grotta. A Nerio, che abbandonò la gestione alla fine degli anni ’90va anche riconosciuto il merito di avere lavorato per la filiera del suo territorio “inventando” l’olio Brisighello e promuovendo il carciofo ancestrale Moretto, che lui sostiene prenda il nome proprio dal suo soprannome di bambino. Tra le altre va ricordata la passione di Nerio per l’olio da Ghiacciola in purezza.

 

GIORGIO MELANDRI

 

IN FOTO; Nerio in veste di sommelier al lavoro in un enoteca bolognese -  Il giovane Nerio serve un elaboratissimo tacchino al ristorante Gigiolè -  Nerio serve il vino a Luigi Veronelli all'epoca una delle figure più importanti del patrimonio enograstronomico italiano

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